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Per Aspera Ad Veritatem n.20
L'Unione Monetaria Europea nel quadro della globalizzazione finanziaria: rischi ed opportunità

Salvatore ROSSI




Il tema di questa nostra conversazione suona sonoro e solenne e rischia di essere tendenzialmente noioso per chi lo ascolta. Confido molto nella vostra collaborazione. Credo che sia particolarmente utile e interessante l'interazione, perché abbiamo, io dalla mia parte, voi dalla vostra parte, profili e culture professionali diverse e complementari. Esplorare queste complementarità credo sia di grande interesse per entrambe le parti. Il mio profilo professionale è tendenzialmente accademico, pur avendo la responsabilità di un Dipartimento di Ricerche Economiche che ha compiti operativi.
La Banca d'Italia è un organo di politica economica. Tradizionalmente, il Servizio Studi della Banca d'Italia è stato il luogo in cui si facevano le riflessioni di fondo in merito alle decisioni di politica economica da prendere. Il Servizio Studi della Banca d'Italia è sempre stato il luogo in cui queste decisioni da prendere erano tecnicamente preparate per essere sottoposte alla decisione che spettava all'organo politico, nella persona del Governatore della Banca d'Italia.
Detto questo, rimane il fatto che io sono un economista, ragiono da economista, parlo da economista e, quindi, tendo ad offrire ai miei interlocutori una visione che ha della teoria dentro di sé. Com'è noto, la teoria è utile, ma non serve a niente se non si coniuga con la pratica.
Veniamo ai temi di questa conversazione che, in realtà, sono due: l'unione monetaria Europea, la globalizzazione ed in particolare la globalizzazione finanziaria.
Conviene, forse, parlare della globalizzazione in termini più generali. Tra l'altro, in questo momento, questo tema è di particolare attualità. Siamo alla vigilia del G8 genovese e si preannunciano nuove contestazioni che hanno un profilo ideale ed un profilo d'ordine pubblico. Il profilo d'ordine pubblico, naturalmente, è competenza esclusiva delle Forze dell'Ordine. Per fornire lo spunto iniziale di questa conversazione e per introdurre il tema della globalizzazione, credo convenga soffermarsi un momento ad esaminare, se ve ne sono, le motivazioni reali del cosiddetto "popolo di Seattle". Si deve cercare di capire la ragione dello straordinario fascino che questo movimento contestativo internazionale esercita su moltissimi giovani, anche nel nostro Paese. Il popolo di Seattle fondamentalmente agita due bandiere: la salvaguardia ecologica e l'autodeterminazione dei popoli. Queste sono due bandiere nobilissime, chi di noi non le saluterebbe con entusiamo. Il problema è che, al riparo di queste due nobilissime bandiere, i manifestanti di Seattle e poi di tutti gli altri luoghi del mondo in cui queste manifestazioni si sono tenute invitano il mondo intero a condurre una crociata contro il libero commercio. Il libero commercio internazionale è, infatti, inteso da costoro come il bastione del profitto capitalistico, quindi dell'ingiustizia e della prevaricazione del forte sul debole. A mio avviso, in questo c'è una confusione concettuale molto grave, che va svelata e smascherata.
Ciò serve a capire il perché quelle parole d'ordine apparentemente nobili e che tutti sottoscriveremmo, conducono poi ad un'azione sbagliata che va contrastata soprattutto sul terreno delle idee, prima ancora che sul terreno dell'ordine pubblico.
Il popolo di Seattle ha alcune figure di riferimento. Vi è un'intellettuale americana che si chiama Lory Wallach, una delle figure di riferimento di questo movimento contestativo, una "pasionaria" che ha rilasciato molte interviste e scritto alcuni testi. Un argomento molto caro alla "pasionaria" Wallach suona più o meno così. Lei dice: "è ammissibile che americani e giapponesi commercino fra di loro in stuzzicadenti identici, apparentemente identici, fatti con legno canadese quelli venduti dagli americani, fatti con legno malese quelli venduti dai giapponesi. Questi stuzzicadenti che gli americani vendono ai giapponesi e i giapponesi vendono agli americani viaggiano attraverso oceani, riempiono navi, movimentano merci, persone, denaro. Questa è una follia - dice la Wallach - indotta da questa stupidaggine che è il libero commercio internazionale. E' una follia consentita dall'avidità dei capitalisti che vogliono lucrare sui trasporti, sul prezzo del petrolio che è troppo basso e danneggia il benessere dei paesi produttori. Inoltre, questi odiosi capitalisti abbattono foreste intere per produrre stuzzicadenti". Qui entra l'argomento ecologico. "Questo - termina la Wallach - succede perché nel mondo, in questo momento, si favoriscono i vantaggi assoluti nel commercio internazionale anziché i vantaggi comparati che sono quelli che la buona teoria economica prescrive". In questo caso, se è chiamata in causa la teoria economica, bisogna che un economista approfondisca e dica se tale considerazione è giusta o sbagliata. Questa considerazione è radicalmente sbagliata. Uno studente del primo anno d'economia, se ci pensa un po', lo capirebbe subito.
Ripercorriamo insieme rapidamente un po' di storia del pensiero economico, cominciando da Adamo Smith. Due secoli e mezzo fa, Adamo Smith fu il primo a chiedersi perché mai le nazioni commerciassero fra di loro. Perché? Quale incentivo ci trovavano, che ragione c'era per commerciare fra di loro, anziché fare ricorso all'autarchia? La risposta che si diede fu che lo facevano perché erano fondamentalmente diverse, nel senso che ciascuna di loro era più brava di ogni altra a produrre un certo determinato bene.
Diceva Smith: "Ogni nazione si specializza nella produzione in cui ha un vantaggio assoluto, in cui è più brava di chiunque altra. Si procura, invece, tutti gli altri beni di cui ha bisogno dalle altre nazioni che li producono, perché in questo hanno i loro vantaggi assoluti. Tutto il mondo allora avrà a disposizione una quantità complessivamente maggiore di beni e tutti saranno più felici". Questa è la ragione forte, diceva, Adamo Smith, per invocare il libero commercio. Più libertà si dà all'incrocio fra questi vantaggi assoluti e meglio stanno tutti.
Mezzo secolo più tardi, un altro importantissimo economista inglese, David Ricardo, fece compiere alla teoria un altro fondamentale balzo avanti. Ricardo dimostrò che conveniva alle diverse nazioni non soltanto scambiarsi i beni in cui ciascuna di loro aveva un vantaggio assoluto. Il commercio internazionale conviene, anche, a quelle nazioni che non hanno alcun vantaggio assoluto e che sono svantaggiate rispetto alle altre in qualunque tipo di produzione.
L'importante è che ciascuna di queste nazioni si specializzi nella produzione in cui ha il minore svantaggio, in cui ha, in altre parole, un vantaggio comparato. Questa è la distinzione fra i concetti di vantaggio assoluto e quello comparato su cui la Wallach, e tutti coloro che la pensano come lei, fanno una fondamentale confusione. Comparato vuol dire comparato rispetto ad altri settori, ad altre produzioni, non riguardo ad altre nazioni. Un esempio serve a capire molto bene questa cosa: immaginiamoci un grande chef, un grandissimo cuoco, Bocuse. E' molto probabile che Bocuse sia più bravo a lavar piatti di qualunque sguattero della sua cucina, ma non è efficiente che lui perda il suo tempo a lavare piatti. Lo sguattero ha svantaggi assoluti dovunque, sa lavare piatti peggio di Bocuse, sa cucinare ovviamente peggio di Bocuse. E' efficiente, per tutti, che lo sguattero si specializzi nella produzione del servizio di lavar piatti, in cui ha lo svantaggio minore e Bocuse impieghi il suo tempo a cucinare piatti prelibati. Questo è il senso della teoria dei vantaggi comparati che si deve a David Ricardo. E' la teoria che ha governato tutto il pensiero economico sul commercio internazionale fino a quindici anni fa. Tuttora, questa teoria è al centro delle spiegazioni che si danno del commercio internazionale. Questa contrapposizione fra vantaggi comparati e quelli assoluti che fa la Wallach è una stupidaggine. Perché? Lei, rappresentante di un'intera categoria di pensiero politico in questo momento in voga nel mondo, intende il vantaggio assoluto come il vantaggio di chi diviene più competitivo mediante pratiche immorali, intendendo per pratiche immorali, moralmente ripugnanti, il lavoro minorile e la schiavitù. Queste sono questioni serissime ma che stanno su un piano del tutto diverso. Dunque, alla luce del discorso che ho fatto, che giudizio si può dare del paradosso apparente degli stuzzicadenti? E' o non è una follia che americani e giapponesi vendano gli uni agli altri stuzzicadenti fatti in casa? Quest'apparente paradosso è una fondamentale conquista della civiltà e della democrazia economica e conferma in pieno le predizioni della teoria. I gusti dei consumatori dei due Paesi apprezzano differenze, sfumature di differenza fra quei due prodotti apparentemente simili, anche soltanto il fatto che vengano da un luogo che ciascuno considera esoterico, strano, e che entrambi i Paesi possiedono un vantaggio comparato.
Nella produzione di stuzzicadenti, per esempio, gli americani avranno probabilmente un vantaggio comparato a fare stuzzicadenti piuttosto che a fare origami. I giapponesi avranno un vantaggio comparato a fare stuzzicadenti piuttosto che a girare film western.
Su questo si fonda non soltanto il benessere economico, ma torno a dire, gran parte delle libertà democratiche in un contesto di politica internazionale. Devono il Canada e la Malesia deforestare i propri territori per fare stuzzicadenti? E' una questione molto seria e molto grave, ma che sta su un altro piano. Devono i malesi essere autorizzati a far lavorare bambini di dieci anni per produrre stuzzicadenti? Ovviamente no, tutti noi ci ribelliamo a questa idea che è ripugnante, ma questa è una questione seria e grave che sta su un altro piano. E qual è questo piano? Il piano è quello della politica. La politica è il luogo in cui, se si è in un Paese democratico, di fronte ai cittadini si pongono i dilemmi fra gli obiettivi in conflitto. Obiettivi in conflitto possono essere l'efficienza economica, la salvaguardia di valori morali ritenuti fondamentali. Spetta alla politica sciogliere questi nodi. Non si risolve, però, il problema dell'ecologia o il problema dell'ingiustizia sociale su scala internazionale, buttando l'acqua sporca o liberando il bambino. Queste sono riflessioni intorno alle ragioni di chi si oppone alla globalizzazione intesa come versione estremistica del commercio internazionale libero.
Cerchiamo adesso di andare un po' più alla radice del concetto di globalizzazione. Che designa mai questa parola così di moda da qualche anno a questa parte? Ci sono quattro fatti importanti che caratterizzano questo fenomeno economico. La globalizzazione ha quattro caratteristiche. La prima è il commercio fra le nazioni, gli scambi di merci che si estendono geograficamente e coinvolgono una quantità e una varietà sempre maggiore di prodotti. La seconda caratteristica è rappresentata dal denaro in tutte le mille forme in cui può essere detenuto e conservato, dal contante ai titoli, alle azioni, ai depositi sulle banche internazionali. Il denaro circola, più facilmente e più liberamente, attraverso le frontiere nazionali alla ricerca di impieghi più redditizi. Così come anche le merci circolano più liberamente alla ricerca di maggiori opportunità di profitto per le imprese che le producono. Terza caratteristica: le persone si spostano anch'esse più facilmente e più liberamente da un Paese all'altro, questa volta alla ricerca di migliori opportunità di lavoro. Quarto fattore molto importante: le idee si muovono più rapidamente anche a grandi distanze, fisiche ma anche culturali. E si muovono alla ricerca di più pronte applicazioni pratiche. L'insieme di questi quattro fenomeni costituisce quello che gli economisti chiamano la globalizzazione economica, di cui la globalizzazione finanziaria è parte.
Una prima domanda da porsi è: ma questa globalizzazione che oggi viviamo è un fenomeno senza precedenti nella storia? La risposta è un sonoro no. C'è un bellissimo saggio di due storici economici europei, Baldwin e Martin, uscito l'anno scorso. Questo saggio espone uno studio comparato molto dettagliato e molto analitico fra due episodi di globalizzazione. Lo studio riguarda quest'episodio di globalizzazione, che si ritiene iniziato all'incirca a metà degli anni settanta ed un episodio precedente che, invece, attraversò un arco di anni fra il 1870 e la prima Guerra Mondiale, fondamentalmente il periodo della Belle Époque.
Adesso vi leggo un passo di quattro righe che dice così: "un abitante di Londra può ordinare per telefono, sorseggiando a letto il suo tè del mattino, i più vari prodotti dell'intero pianeta. Allo stesso tempo e con lo stesso mezzo, egli può avventurarsi ad investire le sue sostanze in risorse naturali o in iniziative imprenditoriali in ogni angolo del mondo. Può anche, se lo desidera, cambiare prontamente paesaggio o clima con mezzi di trasporto confortevoli e a buon mercato senza passaporto o altre formalità".
Questo passo, che potrebbe essere stato scritto da un giornalista contemporaneo, fu scritto da Keynes nel 1919. Faceva riferimento all'età dell'oro che si era chiusa con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Baldwin e Martin non si accontentano di questo giudizio impressionistico del tempo, sia pure di un testimone molto significativo come Keynes, ma vanno a fare i conti, vanno a prendere delle misure. Come si fa a misurare la globalizzazione? Prendiamo il commercio internazionale, primo degli aspetti. La prima misura, d'evidente intuizione, che si attua è prendere il valore di tutti i prodotti che i principali Paesi industriali si scambiano fra di loro, depurata delle variazioni dei prezzi nel tempo. Questo perché, altrimenti, si ottiene una misura distorta dei mezzi inflazionistici che può essere stata, più o meno, presente nel corso degli anni e che, in un secolo, il periodo in cui stiamo facendo questo confronto, ovviamente sono stati enormi e variabili.
Mettiamo questo valore, depurato dall'inflazione, in rapporto al valore complessivo della produzione di questi Paesi: commercio su prodotto, quindi. Nel 1910, calcolano Baldwin e Martin, questo rapporto era già uguale o superiore ad un terzo in Giappone, Germania, Francia, Inghilterra, tutti i Paesi dell'odierno G7, tranne gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, non a caso, erano a quel tempo un'economia molto chiusa ai rapporti commerciali con il resto del mondo. Lo sono, tuttora, un'economia relativamente chiusa, loro commerciano con il resto del mondo molto meno di quanto non commerci ciascuno dei nostri Paesi europei.
Novanta anni dopo, cosa succede? Succede che, nonostante l'enorme aumento della capacità di trasporto, di comunicazione, etc., il volume di commercio internazionale in rapporto al prodotto è sostanzialmente rimasto lo stesso, è aumentato marginalmente, negli Stati Uniti, attualmente è il 20% circa.
Andiamo alla finanza: movimenti di denaro, movimenti di titoli, movimenti d'attività finanziarie. Lì viene fuori la scoperta più grossa. Lì viene fuori che, cent'anni fa, una qualunque misura d'intensità dei flussi finanziari internazionali dava valori più alti di quanti non ne dia oggi. L'eccezione era di un paio di paesi: l'Inghilterra e l'Argentina, paesi protagonisti della storia di quegli anni che, per ragioni di declino storico, hanno perso moltissima importanza come centro propulsore di flussi finanziari internazionali.
Pensando al movimento delle persone, facciamoci venire in mente le emigrazioni bibliche degli emigrati italiani, ma non solo italiani, anche irlandesi, spagnoli, migrazioni bibliche a confronto delle quali le nostre odierne preoccupazioni sui flussi migratori nel mondo si ridimensionano molto. Allora, dove sta la differenza, se c'è, se ce n'è una? La differenza su questi grandi episodi di globalizzazione fine Ottocento ed oggi, dov'è? Ponendo mente alla definizione che avevo dato di globalizzazione forse verrà alla memoria, perché io avevo affermato che ci sono quattro fatti: merci, persone, denaro e idee. D'idee non abbiamo ancora parlato. E' lì che sta la differenza fondamentale. Il punto è che il commercio internazionale ha cambiato natura rispetto ad allora. Allora, il commercio internazionale avveniva sostanzialmente fra paesi diversi per livello di sviluppo e per dotazione di risorse ed era un commercio, per esempio, di materie prime contro manufatti. Oggi il commercio internazionale avviene fra paesi molto simili fra loro che si scambiano prodotti molto simili fra loro, automobili, stuzzicadenti. Ciò deriva dalla sempre crescente preferenza dei consumatori per la varietà, che rappresenta un indicatore fondamentale di benessere. Anche i flussi finanziari hanno cambiato natura: un secolo fa consistevano in grossi investimenti in impianti di pochi grandi capitalisti. Oggi i flussi finanziari internazionali sono prevalentemente fatti da piccoli investimenti di una massa sterminata di risparmiatori, milioni, decine di milioni di risparmiatori che hanno oggi la possibilità di variare i loro investimenti finanziari anche oltre confine. Questa è l'esperienza di noi piccoli risparmiatori italiani negli ultimi dieci anni. Ci stiamo timidamente affacciando sul grande scenario internazionale delle opportunità d'impiego dei nostri risparmi.
Le idee circolano molto più liberamente, le idee scientifiche, le idee tecnologiche. Questo succede, perché, in realtà, così come quell'episodio di globalizzazione era stato innescato dalla caduta verticale dei costi di trasporto fisico, quest'episodio di globalizzazione è stato innescato dalla caduta verticale dei costi della comunicazione a distanza. Essi sono diminuiti negli ultimi trenta o quarant'anni molto di più di quanto non siano diminuiti i costi del trasporto fisico, per nave, per aereo, etc. Vi fornisco solo due dati abbastanza curiosi: i costi di trasporto via nave, per esempio, in questo secolo sono scesi di 2/3 in 40 anni, dagli anni '60 sono stabili. I costi della comunicazione telefonica si sono ridotti ad un centesimo di quello che erano dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. I costi della trasmissione di dati via satellite, fatto recente durato soltanto vent'anni, in vent'anni si sono ridotti ad un decimo di quello che erano alla fine degli anni settanta.
Allora, quest'attuale, presente ondata di globalizzazione è un bene o è un male? Quale atteggiamento si deve tenere nei confronti di questo fenomeno? Quella di un secolo fa si chiuse malissimo, con due conflagrazioni belliche che causarono milioni di morti e disastri d'ogni tipo.
Una delle ragioni, secondo la mia personale opinione, per cui questo accadde, fu l'affermarsi della convinzione, malintesa, che la prosperità nazionale implicasse di necessità una competizione per l'accesso ai mercati da combattere con ogni mezzo. Inoltre, quell'altra ondata di globalizzazione finì con lo scavare un divario di sviluppo, un divario di benessere fra le aree industrializzate del mondo, le aree depresse e le aree agricole. Le aree arcaiche sono un focolaio di tensione ed è una situazione che abbiamo ereditato da allora. Quest'ondata di globalizzazione potrebbe rappresentare un'opportunità di sviluppo per le aree arretrate, proprio perché quest'ondata di globalizzazione si fonda sulle idee e sulla loro veloce circolazione e sul loro essere rese velocemente fruttifere, fertili. Proprio per questa ragione, paesi come la Cina e l'India stanno emergendo adesso da abissi secolari d'indigenza, di sottosviluppo. Quelli sono paesi però che hanno un humus culturale che consente loro di produrre idee, di accogliere, soprattutto, fruttuosamente, idee economicamente e tecnologicamente applicabili che vengano da fuori. Questa cosa sta succedendo: l'India e la Cina in questo momento stanno per decollare. Rimane il problema delle aree poverissime del mondo, di gran parte dell'Africa. E' oggettivamente vero, questa è la mia profonda convinzione, che una conseguenza negativa, assolutamente indesiderabile della globalizzazione di oggi è che alcune aree del mondo finiscono fuori dai margini, finiscono out. C'è una deriva di emarginazione che sta colpendo i paesi più poveri che, peraltro, sono quasi tutti concentrati in Africa. Questa è una cosa che non si può tollerare sul piano etico e che non si può neanche tollerare sul piano politico ed economico perché foriero di guai, come sempre quando una ingiustizia, una tensione, una disuguaglianza si allarga troppo, perché poi qualcosa esplode. Che cosa si può fare per evitare questa terribile conseguenza della globalizzazione senza uccidere la globalizzazione? Intanto una cosa che si può fare è andare alla ricerca di tutti i colpevoli di questa situazione. Un colpevole, di cui poco si parla, del buco in cui sono finiti i paesi poveri, sono le politiche agricole dei paesi avanzati della Comunità Europea, degli Stati Uniti d'America, e questo non ha niente a che vedere con la globalizzazione. Le politiche agricole di tutte e tre le grandi aree avanzate mondiali, perché ci si mette anche il Giappone, sono residui del passato e gridano vendetta davanti a Dio e agli uomini, perché sono politiche volte a sostenere i redditi di una parte esigua della propria popolazione che ha un potere di lobby, evidentemente molto grande, nei confronti dei sistemi politici di tutte e tre le aree a scapito dei consumatori, dei consumatori degli stessi paesi, ma poi soprattutto a scapito delle produzioni, dei vantaggi comparati di quei paesi. Perchè i paesi poveri hanno un vantaggio comparato, chiunque ha un vantaggio comparato, chiunque sa fare una cosa meglio di qualche altra cosa, anche se poi tutto il resto del mondo la sa fare meglio. Allora il vantaggio comparato dei paesi poverissimi è nella produzione di beni agricoli o beni alimentari poco lavorati, ma in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti ci sono barriere protezionistiche formidabili nei confronti di queste produzioni; è questo che affama quei paesi, molto più che la globalizzazione. Ma di questa cosa qua non si parla mai abbastanza. Questo è un tema su cui il Governatore Fazio si è soffermato a lungo nelle sue ultime considerazioni finali del 31 maggio scorso. Ha, infatti, dedicato tre pagine molto accorate a questo tema ed a questo deve provvedere la politica internazionale. Ci sono iniziative in corso, iniziative per la cancellazione del debito dei paesi più poveri.
Questo è il contesto generale di globalizzazione, entro cui va collocata l'altra questione che è quella dell'Unione Economica e Monetaria Europea. Essa è parte di questo fenomeno di globalizzazione perché è un esperimento, molto avanzato, di integrazione fra economie e società diverse, è la punta di diamante all'interno del generale fenomeno della globalizzazione.
Quale storia ha l'Unione Monetaria Europea? L'euro che stiamo per accogliere fisicamente nei nostri portafogli, dal 1° gennaio dell'anno prossimo, da dove nasce? Viene da molto lontano, ha almeno cinquanta anni. L'Unione Monetaria è momento culminante, almeno per la storia fino ad oggi, di un'intuizione, di un impulso e di uno slancio d'integrazione che nasce alla fine della Seconda Guerra Mondiale e che, nella sua essenza ultima, è politico.
Una domanda che molti spesso si fanno è se l'integrazione economica in Europa sia veramente un fenomeno economico o se non sia, invece, un fenomeno politico travestito da fenomeno economico. E' indubbio che lo slancio iniziale fu politico. I grandi padri dell'integrazione europea, De Gasperi, Adenauer, Schumann, si basarono fondamentalmente sull'idea che l'obiettivo ultimo della pace fra i popoli, della sicurezza di evitare il bagno di sangue da cui si stava uscendo, doveva essere perseguito in modo intelligente ed inconsueto. In altre parole, si doveva perseguire attraverso l'economia che è il terreno su cui, in fin dei conti, la pratica ed il confronto degli interessi spingono tutta la storia. Quest'impulso, inizialmente politico, fu subito trasferito con decisione politica sul terreno pratico e concreto dell'economia. La cosa curiosa è che poi, nell'arco di questi cinquant'anni, ha preso, alternativamente, una veste più reale, merci e produzione, ed una veste più monetaria e finanziaria. Il primo impulso fu allora reale, anche perché quello era probabilmente il terreno su cui c'era il divario maggiore da colmare. Si veniva, infatti, da una stagione di protezionismo, quel protezionismo causa non ultima della Seconda Guerra Mondiale, forse causa non prima, ma certamente non ultima. La costruzione del Mercato Comune Europeo segnò questo primissimo slancio. Mercato Comune Europeo volle dire abolizione di dazi, di ostacoli di ogni tipo al commercio e agli scambi di merci. Ottenuto questo risultato con sorprendente facilità per i contemporanei dell'epoca, venne subito la voglia di spostarsi sull'altro piano che era quello monetario e finanziario e cominciarono, fin dai primi anni '60, ad essere concepiti i piani d'unificazione monetaria in Europa.
Nell'arco degli anni ‘60 questa cosa acquistò forza. Alla fine di quegli anni si conferì incarico ad un illustre personaggio del tempo che si chiamava Werner, il Primo Ministro belga, di guidare un gruppo di saggi che dovevano stendere un progetto d'unificazione monetaria in Europa. Il povero Werner cadde vittima dei paradossi della storia perché questa cosa successe nel momento più sbagliato, nel momento in cui il sistema monetario internazionale stava crollando. Il sistema monetario fondato da Bretton Woods nel '45 che aveva retto il mondo per venticinque anni e aveva consentito la straordinaria espansione del commercio internazionale, la stabilità nei rapporti finanziari internazionali, alla fine di quegli anni stava per crollare. Stavamo per entrare negli anni '70, caratterizzati dalle grandi crisi petrolifere. Insomma, il povero piano Werner fu spazzato via in pochi mesi, cadde nel dimenticatoio.
Gli anni '70 furono una traversata nel deserto dal punto di vista delle speranze degli europeisti. Il mondo era agitato, squassato da queste grandi crisi.
Alla fine degli anni '70, la montagna dell'idea dell'unificazione monetaria produsse il topolino del sistema monetario europeo che era un semplice accordo di cambio, anche un po' loose, un po' lento. Prevedeva una banda d'oscillazione ed era possibile, molto frequentemente, alterare le parità centrali, infatti, l'Italia approfittò molto di questo.
Il sistema monetario europeo negli anni '80 in Italia ha fatto il suo onesto lavoro. Nel frattempo era tornata la voglia di dare un nuovo impulso all'integrazione europea sul piano reale, perché ci si era resi conto che il mercato comune fondato negli anni '50 in realtà non era ancora abbastanza comune. Restavano moltissimi ostacoli al commercio, non i dazi, erano stati abbattuti tutti gli ostacoli visibili, ma moltissimi ostacoli invisibili restavano e bisognava, quindi, dare un nuovo stimolo per rimuovere anche questi ostacoli invisibili. Faccio un esempio: gli standards tecnici. Ogni paese fissa un suo standard tecnico su come devono essere fatte le prese elettriche. Questo spiazza tutta la produzione di piccoli elettrodomestici di un altro paese, imponendo al produttore tedesco dei costi aggiuntivi per prevedere, per esempio, una spina ad hoc per la normativa italiana. Esempi così se ne possono fare a centinaia. Ostacoli di questo tipo possono essere molto più efficaci di un dazio per impedire il commercio.
Questo fu il cosiddetto mercato interno europeo, si cambiò aggettivo per dare il significato di un altro impulso. Ottenuto il risultato, nuovamente, e questa volta molto rapidamente, s'immaginò di procedere ad un'unificazione del segno monetario. Per quale motivo dovremmo avere una moneta comune in Europa? Quali sono i vantaggi di questa cosa? Quali sono gli svantaggi, se ci sono?
Ragionando freddamente da economisti, si può fare una lista della spesa dei vantaggi e una degli svantaggi. Poi, ognuno è libero di tirare la linea e stabilire se i vantaggi esorbitano gli svantaggi. I vantaggi dove stanno? Si trovano fondamentalmente nell'abolizione di una serie di costi di transazione per le imprese. Ancora più importante è il vantaggio di abbassare la soglia di rischiosità per l'imprenditore che, nel mondo globalizzato di oggi, commercia con altri paesi e con altri paesi europei. In particolare, deve valutare il rischio di una fluttuazione dei cambi, conteggiando i suoi profitti nella valuta nazionale, tutte le volte che compra dall'estero e che vende all'estero. Questo gli succede perché i suoi bilanci sono stilati nella moneta nazionale. Le transazioni non sono mai istantanee, questo può alterare molto i suoi costi e i suoi ricavi. Naturalmente, esistono i mercati assicurativi su cui un imprenditore può assicurare questi rischi, ma queste assicurazioni costano, è un costo aggiuntivo che si va ad aggiungere ai costi di transazione veri e propri di cambio tra le monete. C'è un terzo vantaggio fondamentale dell'avere una moneta unica in un mercato unico. Questo terzo vantaggio riguarda - per alcuni versi - la politica internazionale, perché rappresenta un modo per evitare le guerre competitive che possono essere squassanti. Come saprete, attraverso il tasso di cambio, si possono alterare le condizioni competitive. Io sono un imprenditore italiano e vendo sul mercato tedesco, i prezzi lì li devo fare in marchi però i miei profitti li conteggio in lire. Con la svalutazione della lira, in questo caso, mi si offre immediatamente un margine di manovra che mi consente di ridurre i prezzi in marchi e battere i concorrenti d'altri paesi; se, invece, la mia competitività è alta per ragioni di qualità, ingrasso i miei margini di profitto. Con un colpo di bacchetta magica, una svalutazione della moneta nazionale offre agli imprenditori nazionali questa enorme opportunità e gli imprenditori italiani negli anni '70 e '80 hanno abbondantemente beneficiato di questo margine di manovra offerto dalla flessibilità del cambio. Questa cosa non lascia indifferenti gli altri. Gli altri paesi mettono in atto azioni di rappresaglia che possono essere una svalutazione competitiva dell'altra moneta e si entra in una spirale viziosa di svalutazioni a catena fra di loro, soprattutto se in un altro paese si diffonde la convinzione che c'è una politica governativa di svalutazione della moneta nazionale in chiave competitiva. Questo è quanto si è verificato in Asia, quattro o cinque anni fa, in occasione della crisi asiatica. In alternativa possono essere messe in piedi azioni di rappresaglia di tipo protezionistico, commerciale, quindi sussidi, dazi, con conseguenze negative per tutti, per le ragioni che abbiamo detto prima.
Se pensate all'ultima grande svalutazione della lira, quella del '92, in quella circostanza i francesi protestarono molto sostenendo che quella svalutazione era stata una svalutazione aggressiva, a fini competitivi, meditata a tavolino. Non era affatto così, quella svalutazione noi italiani la subimmo come momento conclusivo di una stagione di follie finanziarie che ci avevano condotto a quel punto.
Questi sono i tre vantaggi fondamentali dell'avere un'unione monetaria in un'area continentale in cui c'è già un mercato unico. Ci sono svantaggi? Sì. Ce n'è uno fondamentale, che è il rovescio della medaglia. Un paese che aderisce ad un'Unione Monetaria, perde una valvola di sicurezza che è quella della svalutazione del cambio, più in generale della politica monetaria. Se io conservo la mia moneta nazionale e la mia politica monetaria nazionale, posso avere un cambio più svalutato e un tasso di interesse più basso e, normalmente, le due cose vanno insieme. Posso desiderare questa cosa per stimolare la mia economia, per stimolare le esportazioni, per stimolare gli investimenti.
Questo margine di manovra ora si perde. Quanto è importante questa perdita? Qui le opinioni possono, ovviamente, divergere. Vi posso dare la mia che, peraltro, coincide con quella della maggior parte degli economisti internazionali. Quest'opinione è che, tutto sommato, questa perdita sia contenuta e sopportabile per i paesi europei. E' difficile immaginarsi uno shock asimmetrico perché l'argomento che, normalmente, è usato dai critici dell'Unione Monetaria Europea è quello dello shock asimmetrico. Che cosa vuol dire? Succede un fattaccio nel mondo, una crisi petrolifera, un evento qualunque, che colpisce selettivamente un solo paese fra quelli aderenti ad un'unione monetaria. Il paese che subisce gli effetti negativi dello shock, se questa cosa succede, se avesse la sua moneta e la sua politica monetaria potrebbe reagire allo shock in quel modo, non sarebbe, quindi, un'azione aggressiva, di guerra competitiva. E' una reazione ad una sventura che capita, quindi sarebbe considerata tollerabile dagli altri paesi, e tutti sarebbero più contenti. Con il vincolo, invece, della rigidità dell'Unione Monetaria, questa cosa non si può fare. Allora, la questione diventa: quanto è probabile che occorra uno shock di questo tipo? Uno shock che colpisce intenso, grave, al punto da minacciare di recessione un'economia nazionale, in modo selettivo, questo paese sì e questo paese no? Nelle condizioni dell'Europa di oggi un evento del genere è molto improbabile. La cosa che ci si è di più avvicinata negli ultimi dieci anni è, appunto, la crisi asiatica. Per quale motivo la crisi asiatica può essere considerata uno shock asimmetrico? Perché alcuni paesi europei e, tra questi, l'Italia erano più specializzati nella vendita dei propri prodotti su quei mercati. Se la domanda in quei paesi crolla improvvisamente per ragioni che sfuggono assolutamente al nostro controllo, di primo impatto le conseguenze peggiori le subiscono gli esportatori che sono più specializzati su quei mercati. I nostri esportatori, però, sono stati abbastanza rapidi nel reagire e bravi abbastanza nell'aggiustare, nello spostarsi su altri mercati per ovviare all'inconveniente senza far rimpiangere la perdita dell'arma della svalutazione del cambio. E' un'arma che ha dei costi molto pesanti, svalutare il cambio non è un pranzo gratis. Svalutare il cambio dà un sollievo immediato e quello può essere utile in qualche caso, effettivamente, ma poi imbarca inflazione, perché rincarano i prodotti importati. Per esempio, nelle relazioni industriali di un certo tipo, se ci sono meccanismi d'indicizzazione come quelli presenti in Italia negli anni '70 e '80, l'inflazione importata diventa disastrosa e annulla rapidamente i benefici sull'esportazione della svalutazione del cambio. Si tratta, quindi, di un'arma scomoda e costosa.
Creare una moneta unica in Europa vuol dire creare un politica monetaria unica e dunque creare una Banca Centrale Federale.
Ci sono fondamentalmente due modelli di Banca Centrale Federale fra i quali si può scegliere in astratto: un modello accentrato e uno decentrato.
L'altro grande esempio nella storia di Banca Centrale Federale è la riserva federale americana che nacque cent'anni fa, appunto, dalla fusione di più banche centrali statali americane. A quel tempo, si optò per uno schema di formazione delle decisioni molto decentrato.
Poi negli anni '30, a seguito della grande depressione, ci fu un mutamento d'opinione.
Fu riformata la legge, lo statuto che governava il funzionamento della riserva federale e quella Banca Centrale si diede, invece, uno schema fortemente accentrato che è quello che ha oggi.
La riserva federale ha oggi un organo di vertice che prende le decisioni costituito dal Federal Open Market Committee, a Washington, in cui sono rappresentati anche i presidenti delle banche distrettuali. Poi a New York, Los Angeles, San Francisco, Chicago ci sono gli equivalenti della Banca d'Italia, della Banca di Francia, la Bundesbank etc.
Quest'organo è collegiale, ma la preminenza del Presidente e del suo staff, che siede a Washington, è esorbitante.
Quindi, in questo momento, la Federal Reserve americana segue uno schema di funzionamento accentrato.
L'eurosistema, la Banca Centrale Federale Europea è partita, come la Federal Reserve cent'anni fa, con uno schema fortemente decentrato.
Quindi, in questo momento le decisioni di politica monetaria in Europa le prende un organo composto da diciassette membri. Di questi, sei siedono a Francoforte e sono stati nominati con evidenti criteri geopolitici, anche se ciò ufficialmente viene negato.
Gli altri undici sono i Governatori delle undici Banche Centrali Nazionali che hanno creato il cosiddetto eurosistema, il sistema europeo di banche centrali.
Questi diciassette membri sono diciassette "teste" autonome, ossia il loro voto pesa ugualmente. Gli undici membri nazionali sono in maggioranza numerica rispetto ai sei che stanno in Francoforte.
Quando costoro si riuniscono, lo fanno in una stanza chiusa senza testimoni, come d'altro canto anche il Federal Open Mark Committee americano fa.
Per quel che quindi si può capire dai primi due anni di funzionamento, l'organo è veramente collegiale.
Il sistema di votazione prevede inoltre la maggioranza. Quest'organo ha, inoltre, deciso di non diffondere i verbali delle riunioni, decisione, peraltro, molto criticata dalla comunità scientifica.
Sta di fatto che questa decisione è stata presa anche, a mio avviso, sull'onda della cultura Bundesbank che ha sempre avuto una cultura della segretezza della decisione del Banchiere Centrale.
Non è dato, quindi, sapere se poi le decisioni siano state effettivamente prese in questi due anni a maggioranza, con quale maggioranza oppure all'unanimità.
Abbiamo quindi un "condominio" in cui le Banche Centrali Nazionali formalmente hanno tutte lo stesso peso.
Di fatto, poi, esse pesano ciascuna di più o di meno, secondo il peso specifico delle analisi che il Governatore nazionale alle riunioni del Governing Council si porta dietro, oltre a quello del suo personale carisma e della sua personale capacità.
Dico tutto questo per chiarire che in realtà noi, in Banca d'Italia, non ci sentiamo, e questo non suoni difensivo, come chi ha perso un potere.
Siamo parte di un sistema in cui il potere che prima era esercitato sul solo territorio italiano, si esercita ora sull'intero territorio europeo.
Le decisioni si prendono collegialmente e si può pesare molto se si è intelligenti abbastanza, se si producono delle analisi ben fatte che suonino convincenti agli altri condomini.
In relazione alla situazione attuale, vorrei inoltre dire che alcuni economisti hanno affacciato la congettura che una delle ragioni della debolezza dell'euro, in questi mesi, consista nel fatto che, chiunque detenga valute nazionali europee per motivi illegali si stia affrettando a cambiarle prima di doverlo fare obbligatoriamente attraverso canali formali.
Difficile dire se questa congettura non ha avuto verifiche empiriche scientifiche perché sarebbe veramente arduo metterle in cantiere, però, è una congettura che è stata seriamente affacciata.
Gli ispettori della Banca d'Italia non hanno poteri in questo campo. L'ispettorato della Banca d'Italia è un ispettorato di vigilanza, cioè di supervisione sul sistema bancario ed è, quindi, un corpo volto a capire come funzionano le banche, avendo in mente l'obiettivo della stabilità degli intermediari. Quindi, i nostri ispettori non sono organi di polizia.
L'Ufficio Italiano dei Cambi svolge compiti di antiriciclaggio e mi risulta che operi in collaborazione con Organi di Polizia di vario tipo.
Concludendo, vorrei dire, comunque, che quando quest'avventura partì cinquant'anni fa, nella mente di chi la fece partire il risultato finale era l'unione politica, non c'è dubbio su questo. E l'unione economica e poi quella monetaria erano viste come una strada intelligente attraverso cui arrivarci, anche se un po' tortuosa. Quali siano adesso le prospettive dell'unione politica, io non saprei dire.
Una domanda che possiamo porci è se la costruzione economica e monetaria che abbiamo messo in piedi abbia senso e possa sopravvivere bene e prosperare anche in assenza di un'unione politica. Dobbiamo chiederci se ciò può succedere con la prospettiva di un'unione politica che si allunga nel tempo a dismisura.
Io credo di sì, credo che la risposta sia affermativa perché vi sono in ogni caso ragioni di senso economico, di razionalità economica che militano a favore dell'avere un mercato unico e una moneta unica nel mercato unico.
Si tratta di qualcosa di economicamente efficiente che, quindi, sta in piedi da solo. Questa è la mia personale opinione.


(*) Testo tratto dalla Conferenza tenuta in data 13 giugno 2001 presso il SISDe

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